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5 minuti di lettura (941 parole)

Chi scrive ha la responsabilità di chi legge

lettore

Avete mai pensato a cosa prova un lettore scontento?

Ai pensieri di chi si smarrisce davanti ai testi respingenti che legge tutti i giorni sul lavoro o fuori dal lavoro?

Qui non parlo di narrativa, ma di tutto il resto.

Anche il messaggio “non aprire questa porta” appiccicato con lo scotch sulla porta in questione è un testo, per intenderci.

Chi legge un testo che deve capire, non può agire su nulla. Non può modificarlo; non può rivolgere domande a chi lo ha scritto o, se può farlo, “non osa”; si deve fidare di chi l’ha tradotto, se legge parole scritte in origine in una lingua diversa (la questione non si pone per un romanzo, ma se deve capire un contratto per poi firmarlo?).

E quindi mi chiedo: come può il lettore scontento far sentire il proprio fastidio quando deve rileggere tre volte, la propria frustrazione quando non capisce, la propria disillusione quando si accorge che dietro alle parole c’è solo il nulla?

Tre stati di scontentezza

Queste sono le parole che userebbe il lettore scontento se potesse parlare con chi ha scritto un testo respingente, secondo me:

Le informazioni non sono sufficienti, oppure hai infilato in questo testo troppe informazioni; non mi hai scritto niente che non sapessi già, oppure hai dato per scontata una conoscenza che non ho. FASTIDIO

Non mi è chiaro quello che hai scritto e ho voglia di lasciar perdere oppure faccio troppa fatica per rendermi conto se quello che ho capito è giusto o ha senso. FRUSTRAZIONE

Non ti ho visto dietro le parole, sei una persona o una voce sintetica? Oppure ci sei troppo tu dietro alle tue parole, non hai tenuto in considerazione le mie esigenze e i miei bisogni. DISILLUSIONE

Fastidio, frustrazione e disillusione sono tre stati di scontentezza non distinguibili così schematicamente uno dall’altro, ma a noi serve tradurli in parole concrete per capire come intervenire, come farci carico di questa solitudine.

Chi legge è una monade

Pensando alla solitudine del lettore mi è venuta in mente una frase di Carlo Emilio Gadda:

Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di «persone singole», di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di «pochi intimi».

Gadda parla di “ascoltatore”, ma, se lo trasformate in “lettore”, il concetto è perfetto lo stesso.

Questo brano si trova in Norme per la redazione di un testo radiofonico, breve scritto del 1953, eppure attualissimo. Sono consigli di scrittura per gli autori di Rai radio tre che funzionano anche per noi quando scriviamo testi che necessitano di una digestione veloce: chiari, semplici, concreti e vicini.

Più avanti, sempre Gadda parla di fading spirituale della ricezione: quello stato di ansia, irritazione e dispetto che coglie il radioascoltatore quando l’autore del programma mette in mostra la sua superiorità intellettuale. Per il nostro lettore scontento pensatela come quella sensazione di scollegamento, di vuoto mentale che si innesca a un certo punto della lettura e che lo fa uscire irreversibilmente dalla trance narrativa d’ascolto.  Del motivo per cui si innesca questa sensazione parlo tra un attimo, seguitemi.

Difficile incollare alla pagina chi legge

Trance narrativa d’ascolto è un termine che non c’entra niente con Gadda, ma che prendo in prestito io dall’esperto di storytelling Andrea Fontana: qui potete rivedere il suo schema in una versione artigianale

trance narrativa

Il concetto di trance è stato ideato da Fontana per le storie: vi fa capire quante fasi attraversa chi le legge, le ascolta o le guarda. È rasserenante vedere che alla fine della curva, se la storia ha funzionato, chi si è immerso nell’esperienza esce un po’ diverso da com’era, un po’ trasformato, un po’ “altro”. Potete applicare questo schema a qualsiasi testo il nostro lettore si trovi davanti: che meraviglia se tutte le cose che scriviamo potessero essere trasformative anche solo per un frammento infinitesimale, vero?!

Invece.

Invece, spesso, chi legge se ne va.

Che cosa gli fa abbandonare la lettura dopo due righe? Oppure: che cosa lo disturba a tal punto da lasciar perdere il testo poco prima di arrivare alla fine?

Frasi lunghe? Sintassi contorta? Parole difficili? Errori di ortografia? Argomento noioso? Mancanza di personalità? Ego espanso (di chi scrive)? Passaggi logici saltati? Tono saccente? Accetto ipotesi.

Chi scrive ha la responsabilità di chi legge

Quindi, per evitare che il lettore frani verso una scontenta solitudine e alla fine se ne vada, il mio suggerimento è soprattutto uno: scrivere semplice.

In sostanza:

  • usare parole chiare e concrete: cioè parole che fanno riferimento a cose, invece che a concetti astratti
  • stare lontano da espressioni auliche,  burocratiche, ridondanti che rendono la lettura una gimcana
  • usare una sintassi lineare: cioè spezzare le catene di subordinate che si inanellano una all’altra e tenere vicini soggetto, verbo e complemento
  • usare più verbi che nomi così da mettere in moto le frasi
  • rendere scorrevole il testo usando preposizioni semplici, punti elenco e due punti.

Con questi strumenti si possono poi costruire mille manufatti: tecnici, commerciali, di marketing, scientifici, legali.

L’importante è creare una struttura solida che regga agli sforzi, che ceda quando è necessario, o che vibri. Che sia flessibile, ma che resista.

Chiudo qui con un consiglio che Gadda dà a chi scrive per la radio, ma, di nuovo, pensatelo per ogni tipo di scrittura:

L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico.

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