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Caricamento Pagina: Il fotografo in giallo. - Il blog della Insight Adv Ltd - Insight adv - creative solutions

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Il fotografo in giallo.

fotografa forense

Da sempre sono un appassionato di gialli, che siano libri, film o serie TV. Le storie in cui si indaga su un mistero o su un crimine efferato, mi affascinano.

Da appassionato di fotografia, ho sempre trovato particolarmente intrigante tutto il lavoro che viene compiuto dalla Polizia Scientifica, che negli USA ha fornito moltissimo materiale per realizzare serie di grande successo come CSI (Crime Scene Investigation), in tutte le sue varie declinazioni.

Ora, quando – nella realtà come nella finzione cinematografica – viene scoperto un cadavere, la prima cosa che si fa, lo sai bene, è prendere un sacco di fotografie.

Esistono fotografi specializzati in questo settore, perché occorre avere delle competenze specifiche, che – mi son detto più volte – tornerebbero utili anche al normale fotografo, insomma anche a me e a te, per dire.

Ad esempio, l’illuminazione radente.

Se devi evidenziare un’impronta di scarpa impressa nel fango, o rilevare un’impronta digitale che il delinquente di turno (piuttosto distratto) ha lasciato su qualche superficie, giocoforza devi ricorrere a una luce flash sparata radente al soggetto stesso, con un angolo prossimo ai 20-30°.

In effetti è una tecnica che risulta valida ogni volta che hai bisogno di far vedere qualcosa che altrimenti passerebbe inosservata.

Un bravo “Forensic Photographer” deve saper gestire i riflessi, ad esempio quelli sul sangue ancora fresco (magari ricorrendo a un filtro polarizzatore) e soprattutto dev’essere davvero bravo a non deformare il soggetto con angoli di ripresa errati.

L’ideale è riprendere i soggetti con inquadratura “zenitale”, cioé sulla verticale esatta (non a caso oggi si ricorre spesso ai droni.).

È anche il regno di obiettivi con scarsa o nulla distorsione, meglio se macro.

Ora, nei film, a dire il vero, di rado rispettano queste regole (e le molte altre) e chi ne sa di fotografia ci fa caso.

A suo tempo avevo acquistato i DVD della serie CSI Las Vegas (non amo guardare la televisione, troppa pubblicità... lo so detto da chi si occupa di pubblicità, è quasi blasfemo... ma il troppo storpia) e ricordo bene che, quando intorno al 2004 vennero introdotte le fotocamere digitali, gli attori maneggiavano delle fotocamere Olympus: allora erano ancora molto lente e dunque nella realtà sarebbe stato impossibile scattare a raffica come si vede fare nei telefilm visto che occorre salvare i file in RAW (o al più in TIF, comunque la registrazione del file era lunghissima).

Nelle stagioni successive sono passati alle Nikon, a volte con obiettivi zoom incongrui per un utilizzo davvero professionale in questo campo.

CSI

Però un vero fotografo CSI lavorerebbe con molta più calma e precisione, senza dubbio ricorrendo – ogni volta che sia possibile – a un treppiedi, inserendo righelli e squadre millimetrate per far vedere le dimensioni dei singoli dettagli, e così via.

Si tratta (per i fotografi) di un campo affascinante, in cui la creatività dev’essere tenuta a freno, ma in cui la competenza tecnica deve raggiungere altissimi livelli. Se si sbaglia, si corre il rischio di compromettere un’indagine.

Secondo il principio di Locard, tutto quello che è presente sulla scena di un crimine porta al colpevole, e quest’ultimo di certo porta con sé qualcosa di quella scena. Magari cose piccolissime, ma la bravura di chi conduce l’indagine è comunque identificarle.

L’analisi forense delle immagini ha una storia antica, che arriva addirittura agli albori della fotografia: già nel 1851 Marcus A. Root diede vita al primo esempio documentato di “autenticazione forense“: utilizzando un microscopio, infatti, scoprì che il processo di colorazione di immagini messo a punto dal rev. Levi Hill era in effetti realizzato grazie a una colorazione manuale e non il risultato di un vero progresso nella fotografia.

Ma a codificare per primo le metodologie di questo singolare campo della nostra amata arte fu, agli inizi del XX secolo, Alphonse Bertillon il quale raccomandava appunto di collocare la fotocamera (allora un ingombrante banco ottico di grande formato) sulla verticale della scena da riprendere (vista zenitale) insieme a precise indicazioni metriche e di scala. Per sopperire a questa necessità, si ricorreva a un treppiedi alto ben due metri. Insomma, un lavoro lungo e complesso.

Un altro “autore” della fotografia forense fu lo svizzero Rodolphe Archibald Reiss (1875-1929), che nel 1903 pubblicò un vero e proprio manuale per questo tipo di riprese (“La photographie judiciare“) - Nel 1909 Reiss fondò anche il primo programma di studi forensi presso l’università di Losanna.

forensic photografy

Ora, ci vuole poco a capire che l’arrivo della fotografia digitale abbia portato una vera rivoluzione in questo campo.

Infatti, se manipolazioni delle foto sono sempre state fatte, e in fondo a volte basta anche solo riquadrare il negativo per eliminare un dettaglio, certamente con l’arrivo dei software di postproduzione questa faccenda è diventata maledettamente facile e soprattutto perfetta. Al punto tale che non è affatto facile capire se e quanto una foto sia stata manipolata. Quante volte, dalle nostre foto, abbiamo eliminato dei piccoli dettagli, magari una macchia dovuta a un pelucchio o un granello di polvere sul sensore?

Se fatto con un minimo di accortezza, è quasi impossibile capire dove e come tale rimozione sia stata fatta. Ed è per questo che in ambito forense si predilige il formato grezzo RAW, che generalmente non è manipolabile.

Tuttavia se si tratta di fotografie scattate da altri (ad esempio un potenziale testimone o addirittura il colpevole di un delitto) – e dunque il più delle volte in Jpeg SOOC (Straight Out of Camera) – chi ci dice che quella foto non sia stata abilmente alterata?

E qui scatta la cosiddetta “Camera Ballistic“, la balistica della fotocamera, trattata davvero come si trattasse di un’arma. Chi ha visto almeno un film giallo, sa bene quale sia l’importanza di ritrovare un proiettile sulla scena del crimine: dalle rigature presenti sullo stesso si può risalire alla pistola che lo ha sparato. Lo stesso si può fare con un file jpeg, ad esempio, che svolge la stessa funzione del proiettile.

Un sensore fotografico, a causa della disomogeneità del silicio di cui è composto, lascia un’impronta caratteristica sulla fotografia: normalmente inavvertibile, ma rilevabile con metodi strumentali come il PRNU (Photo Response Non Uniformity) che analizza il rumore presente in ogni immagine digitale.

Il vantaggio di questo tipo di analisi è che il “pattern” del sensore non può essere alterato con i software digitali e dunque rimane stabile. Ci sono poi alcune caratteristiche che ogni esemplare di fotocamera possiede in modo esclusivo, una specie di “impronta digitale”. Infatti, per standardizzata che sia la produzione industriale, ci saranno sempre piccole differenze tra un modello e un altro, e anche tra esemplari dello stesso modello.

forensic photografy

Come sappiamo, inoltre, i file delle foto hanno “attaccati” diversi elementi, a cominciare dai dati EXIF dove sono riportate le caratteristiche della fotocamera, dell’ottica utilizzata e molto altro.

È vero che possono essere facilmente cancellati, ma se non si è molto esperti, magari ci si dimentica di farlo. Oltre agli EXIF, ci sono poi altri metadati che si possono utilizzare, come gli IMM (Information Interchange Model) detti anche “Intestazioni IPTC” o i più noti XMP (Extensible Metadata Platform), che vengono creati dai software di Adobe quando si elabora una foto.

Ma si possono esaminare anche i thumbnails, e questa è una prova piuttosto efficace. Quando scattiamo una foto RAW, ma in alcuni modelli anche nei file TIF o Jpeg, viene creata una piccola foto che è utilizzata per la visualizzazione rapida della foto sul display della fotocamera. Perciò, anche quando la foto principale viene manipolata, il piccolo file allegato rimane invece invariato. Facendo un confronto, è facile scoprire il trucco.

Se tutto questo non funziona, beh, occorre allora andare a studiare la foto grazie a software molto potenti, che davvero la scompongono nei singoli elementi.

C’è comunque un esame più semplice, alla portata – almeno nella versione semplificata – di chiunque: l’ELA (Error Level Analysis), o JPEG Ghost. Si tratta di un metodo che permette di evidenziare zone dell’immagine che sono state compresse in maniera diversa.

L’idea di fondo è che la compressione di un “patch” (pezza) digitale inserito su un elemento della foto per nasconderlo, sarà diversa da quella di tutto il resto dell’immagine. Dunque facendo una compressione estrema del JPEG questa differenza potrebbe evidenziarsi, in quanto le due aree hanno un “rumore di compressione” diverso. Ovviamente non funziona sempre, ma a volte può darci la risposta che cerchiamo: la foto realizzata dal nostro amico è stata manipolata? Con l’ELA potremmo (forse) scoprirlo!

Bene, spero che con queste semplici informazioni, tu sia in grado più facilmente di capire se il film o la serie che stai guardando è ben fatta o meno. Se il fotografo scatta un po’ a casaccio, con un semplice obiettivo zoom, e anzi: se a scattare le foto non è un tecnico, ma lo stesso poliziotto, cambia film o serie! La fotografia forense è un’arte difficile e delicata, non si può certo improvvisare!

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