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La macchina fotografica digitale - Il sensore

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In questa quarta lezione del nostro corso di fotografia virtuale parliamo di uno dei più importanti componenti della nostra macchina fotografica: il sensore.

Il sensore è un supporto fotosensibile che converte la luce catturata dall’obiettivo in una carica elettrica traducendola in segnali elettronici.

Prima dell’avvento del digitale questo compito era assegnato alla pellicola, un nastro fotosensibile capace di conservare l’immagine catturata attraverso un processo chimico.

Esistono diversi tipi di sensori fotografici: full-frame, APS-C e Micro Quattro Terzi.  Come sempre i maschietti produttori fanno a gara per vedere chi ce l’ha più grosso, chi ce l’ha piccolo e più performante.

Un sensore fotografico di un pollice presente sul cellulare sarà in grado di generare le stesse foto del sensore di una full frame?

Come sempre la risposta è: dipende. Dipende da che lenti abbiamo a disposizione e dalle competenze di chi scatta la foto, ma se potessimo dare in mano 2 sensori di dimensione diversa allo stesso fotografo, montati su due macchine uguali, dotate delle medesime lenti, nella stessa situazione di luce, otterremo un identico risultato?

Cerchiamo di capirlo: ecco a voi una breve (mica tanto, diciamo esaustiva!) guida per capire cos’è un sensore fotografico, com’è fatto e quale tipo è più adatto per noi e per le nostre lenti.

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Sensore fotografico: cos’è e come funziona

Ho sempre pensato che il miglior modo per ricordarsi bene come funziona qualcosa sia paragonarlo ad un oggetto che utilizziamo tutti i giorni. Quindi permettetemi di spiegarvi come funziona una macchina fotografica facendovi il paragone con una cosa che possedete tutti: i vostri occhi.

Regia: sigla di Quark, grazie!

In effetti sono tantissime le invenzioni umane che copiano il funzionamento di cose presenti in natura e anche le macchine fotografiche non fanno eccezione.

Cosa succede quando osserviamo qualcosa? Vediamolo insieme e, non me ne vogliano gli ottici, ma sarà una descrizione semplicizzata per essere fruibile a tutti, rimanendo funzionale all’argomento sensore.

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Eccoci qua, bello questo panorama!

Decidiamo la parte di immagine che ci interessa e la mettiamo a fuoco: i muscoli all’interno del bulbo oculare allungano o accorciano il cristallino, nello stesso modo in cui all’interno della nostra macchina fotografica le lenti dell’obiettivo si spostano per ottenere un’immagine nitida.

Ma com’è l’esposizione? È giusta? Nel nostro occhio è l’iride ad occuparsi di scegliere quanta luce debba entrare, si dilata, chiudendo la pupilla (il “buco” attraverso il quale passa il fascio di luce) in presenza di una forte luce e si contrae “aprendo” o meglio dire, dilatando la pupilla, se la luce ambientale è troppo debole. Possiamo dire che la pupilla funziona proprio come il diaframma, regolando la quantità di luce che entra nel sistema. L’apertura massima della nostra pupilla è 8 mm, quella minima 1,5 mm.

Curiosamente è paragonabile anche ciò che accade quando guardiamo qualcosa che ci piace, esattamente come quando scattiamo un ritratto e apriamo il diaframma per sfocare lo sfondo, la nostra pupilla si dilata (fino a diventare oltre a 5 volte più grande) quando guardiamo qualcosa che riteniamo interessante o al quale siamo affezionati.

A questo punto, se va tutto bene, l’immagine raggiunge la nostra retina: il sensore nel quale i fotodiodi imitano il comportamento delle cellule recettoriali (coni e bastoncelli). I coni sono gli addetti alla percezione del colore in ambienti luminosi, sono di 3 tipi a seconda della lunghezza d’onda alla quale sono sensibili, quindi dei colori, R (Red, rosso), G (Green, verde! Attenzione, non G come giallo!) e B (Blue). RGB vi ricorda qualcosa?

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Noi, e il nostro sensore fotografico, vediamo a colori, ma abbiamo dei fotorecettori sensibili solo a 3 colori, com’è possibile? Tutta la gamma viene creata dalla mescolanza di questi 3 colori. I bastoncelli percepiscono la variazione dell’intensità della luce in ambienti bui. Si occupano quindi di regolare gli ISO nella nostra macchina fotografica anatomica.

Ok, ora che abbiamo più o meno capito che il sensore fotografico è la retina della nostra macchina fotografica vediamo un po’ di capire come funziona nel dettaglio e come è fatto. (se invece siete interessati all’occhio e a come funziona vi suggerisco di guardare su Wikipedia!)

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Il sensore fotografico è un chip, un rettangolino di silicio più o meno grande che ha sostituito la pellicola nelle moderne macchine fotografiche. Serve a convertire la luce in elettroni, producendo in questo modo un’informazione digitale che permetta la riproduzione della scena inquadrata e lo fa tramite i suoi milioni di fotodiodi, i pixel, di dimensione piccolissima: parliamo di micrometri (per intenderci, un capello è spesso circa 80 micrometri). Ogni pixel è un elemento elettrico sensibile alla luce che quando intercetta la sua lunghezza d’onda genera una carica elettrica.

Per i più nerd, i fotodiodi convertono la luce in un segnale elettrico grazie alle caratteristiche delle giunzioni p-n, nel momento in cui un fotone colpisce un fotodiodo avviene il passaggio di un elettrone in una banda di conduzione e la conseguente formazione di una lacuna. Quando all’interno della giunzione p-n abbiamo un numero adatto di fotoni, vengono create un numero sufficiente di coppie elettrone-lacuna tali da creare una differenza di potenziale (DDP) misurabile. Questa differenza di potenziale è direttamente proporzionale alla quantità di fotoni e quindi all’intensità della luce incidente.

L’immagine finale generata in questo modo ha però un difetto: è in una scala di grigi, ma noi vogliamo una foto a colori, e quindi come si fa?

Sulla superficie del sensore fotografico viene collocato un filtro a mosaico denominato Color Filter Array (CFA), il più diffuso è detto matrice di Bayer, dal nome del suo inventore, composta da 3 filtri colorati RGB.

Bayer pattern

I più svegli di voi si staranno sicuramente domandando perché questi 3 colori e non quelli primari. Che fine ha fatto il giallo? Vi ricordate il discorso fatto sull’occhio prima? Ecco. L’occhio umano è più sensibile al verde, anche più di quanto non lo sia al rosso o al blu, è per questo che la matrice di Bayer è formata dalla ripetizione di un pattern composto da 2 quadratini verdi, uno blu e uno rosso.

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Ci sono quindi 4 filtri di fronte ad altrettanti fotodiodi, ognuno elimina le componenti dei colori diversi dal proprio, quindi ogni fotodiodo legge la luminosità specifica in quel punto per un solo colore. Per ottimizzare la raccolta di luce, negli spazi vuoti tra un fotodiodo e l’altro a volte possiamo trovare delle microlenti che reindirizzano sul fotodiodo luce che altrimenti sarebbe andata persa.

Ora interviene il processore della fotocamera che applica un algoritmo ed effettua la “demosaicizzazione”, estrae cioè da ogni gruppo di 2×2 pixel i valori dei colori, questo gli permette di mescolarli correttamente ed ottenere il colore originario di quel dato quadrante. Facile, no?

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L’alternativa ai filtri con matrice di Bayer è rappresentata dai sensori Foveon.

Il Foveon X3 è un particolare sensore fotografico prodotto da Sigma, nasce per imitare quello che succede in una pellicola analogica, ed è costituito dalla sovrapposizione di 3 layers, ognuno in grado di catturare la luce di un certo colore, ogni pixel è quindi in grado di catturare in un unico fotosito la luce incidente e produrre i segnali relativi a tutti e 3 i componenti fondamentali del fascio luminoso.

In questo modo il sensore è capace di acquisire l’intera gamma cromatica senza il bisogno di interpolazione come avviene nei sensori tradizionali. Con questa separazione verticale delle tonalità RGB si rende quindi superflua la presenza di un filtro colore e di un filtro passa-basso, poiché è assente l’interferenza provocata dalla disposizione a matrice dei pixel, problema tipico degli altri sensori a matrice di Bayer.

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In questo modo le fotografie hanno tonalità molto più realistiche e sono dotate di una resa del dettaglio eccellente. Il sensore Foveon è dotato di una ridottissima resistenza agli ISO ma genera immagini nitidissime, da qui la lealtà dimostrata da coloro che possiedono questo sensore fotografico che sono veramente pochi, ma molto legati al prodotto.

Se siete riusciti a seguirmi fino qui (a maggior ragione se invece vi siete persi per strada) capirete facilmente che costruire un sensore fotografico non è un processo facile ed economico.

Essi vengono “cotti” in serie su un wafer (cioè una lastra circolare) di silicio: maggiore è la dimensione del sensore e minore sarà il numero di sensori ricavabili da ogni singolo wafer, facendo lievitare così il costo finale.

Un po’ di numeri per capirci: da un wafer di 20 cm del prezzo di circa 1700 € è possibile ricavare dopo circa 500 lavorazioni solo 20 sensori full frame.

Capite quindi da cosa sia giustificato il prezzo elevato di una macchina fotografica full frame.

Infatti, la differenza sta tutta qui, le macchine con sensori APS-C non sono tecnologicamente meno avanzate, semplicemente a partire dal wafer di cui abbiamo parlato prima riescono a ricavare 200 sensori APS-C, 10 volte il numero dei full frame!!

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Oltretutto se nel mio wafer uno dei sensori è difettoso e bisogna scartarlo, nel caso dei sensori full frame avrò una perdita del 5%, percentuale che scende allo 0.5% nel caso degli APS-C. Sembrano numeri irrisori, ma semplicemente in materia prima il produttore perde 85€ nel primo caso e 8,5€ nel secondo. A questa cifra vanno aggiunti i mancati ricavi e va poi moltiplicata per ogni produzione che viene fatta. Insomma, si raggiunge una discreta somma di differenza alla fine della giornata.

Dunque, li abbiamo citati, ma cosa cambia fra un sensore fotografico full frame e uno APS-C?

Sensore fotografico: le dimensioni

Quando c’erano ancora le fotocamere analogiche, il “sensore fotografico”, rappresentato dalla pellicola, era comune a quasi ogni modello: un rullino di 35 mm veniva usato nella maggior parte delle compatte e delle reflex presenti sul mercato. Con l’avvento del digitale le cose sono cambiate e sono nati tantissimi sensori di dimensioni diverse, ogni produttore ha cercato di ottimizzare costi di produzione e qualità dell’immagine creando sensori sempre più piccoli e quindi più economici cercando di mantenere gli stessi standard qualitativi.

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Ovviamente dalla dimensione del sensore fotografico dipende quella dello specchio e del mirino, per questo motivo i sensori delle reflex sono di dimensioni maggiori rispetto a quelli presenti nelle compatte: non possono scendere sotto un certo limite o non sarebbe possibile avere il mirino e lo specchio.

La dimensione del sensore fotografico è una delle cose più importanti da sapere quando si sceglie la macchina fotografica da comprare. Le sigle sono tante: APS, APS-C, APS-H, FF, MFT, 1/1.8” solo per citarne alcune, perdersi è facilissimo, facciamo un po’ di chiarezza per capire cosa stiamo effettivamente andando ad acquistare.

*Si può riavere la sigla di Quark? Grazie*

Le dimensioni di un sensore si indicano nello stesso modo delle televisioni: in pollici.

Le avete sempre prese per buone senza andare a verificare perché non capite a cosa si riferiscano?

Anche io fino a poco tempo fa, lasciate che vi spieghi. Vi ricordate i televisori con tubi catodici?

Con le misure in pollici di uno schermo si intende il diametro del tubo in vetro che avvolgeva quello catodico. Attenzione però, il numero di pollici non indica l’effettiva area di immagine, che è inferiore al diametro (in genere corrisponde a circa 2/3 della cifra riportata). Questa misurazione è rimasta identica nei televisori moderni e anche nei sensori fotografici, di conseguenza possiamo dire che la dimensione del sensore è il diametro del cerchio nel quale il rettangolo può essere inscritto.

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Non significa quindi che un sensore fotografico da 1/1.8” ha una diagonale da 14 mm, ma ha una misura pari ai 2/3, quindi circa 9 mm.

Lo so, non è proprio immediato, ma nella pratica non si tratta di informazioni molto utili, la cosa fondamentale è capire quale sia il sensore più grande. Senza contare che se siete riusciti a capire la spiegazione chimica e fisica di come funziona un sensore fotografico queste proporzioni dovrebbero essere un gioco da ragazzi per voi.

Tranquilli, dopo scienze, chimica, fisica, geometria e matematica vi giuro solennemente di non tirare in ballo la filosofia! Al massimo un po’ di inglese…

Ma torniamo a noi, è finalmente giunto il momento di vedere insieme quali siano i sensori esistenti, che dimensioni hanno e dove vengono impiegati.

Per completezza, vi segnalo che numeri come 1/1,8” si leggono “sensore da uno diviso uno virgola otto pollici”.

1/2.5 pollici

È il sensore fotografico più piccolo, lo troviamo nelle fotocamere compatte di fascia economica. Leggerissimo, di dimensioni estremamente contenute (5,76 x 4,29 mm) questo sensore fa il suo dovere in buone condizioni luminose, ma quando la luce cala appare rapidamente il rumore nella nostra foto.

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1/1,8 pollici

Vi ricordo che nelle frazioni se il numero sotto è più piccolo il risultato è maggiore, quindi questo sensore è più grande del precedente: 7,2 x 5,3 mm. Con questo sensore fotografico abbiamo più informazioni, riusciamo a gestire meglio i dettagli, si tratta del sensore fotografico utilizzato in genere sulle compatte. Siamo già in grado di fornire una profondità seppur leggera alle foto, staccando il soggetto dallo sfondo.

1 Pollice

Anche questo sensore è largamente impiegato nelle fotocamere compatte, ma lo troviamo anche in alcune bridge e mirrorless di fascia più economica. Di dimensioni di 13,2 x 8,8 mm, è già in grado di fornirvi una buona qualità raccogliendo molte più informazioni luminose rispetto ai modelli precedenti.

4/3”

Con il sensore fotografico da 4/3”, detto anche micro 4/3, Micro Quattro Terzi o MFT, arriviamo finalmente sulle reflex. Ideato nel 2002 e sviluppato da Olympus e Kodak equivale a ¼ dei sensori full frame, con una dimensione di 18 x 13,5 mm. Presenta un rapporto base/altezza pari a 4/3, a differenza dell’ APS-C che è di 3/2. La qualità inizia già ad essere molto interessante.

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APS (1.8”)

Questo è il sensore fotografico più presente nelle reflex, sia di fascia media sia entry level, nelle bridge e lo troviamo anche su alcune compatte della fascia top di gamma.

APS è la sigla per indicare Advanced Photo System, un sistema fotografico con fotocamere e rullini diversi dagli altri lanciato nel 1996 che utilizzava una pellicola di 24 mm, quindi di dimensioni ridotte rispetto ai classici rullini. Nonostante questo sistema sia stato dismesso in tempi celeri, la dimensione di formato ridotta ha rapidamente preso piede perché rispetto al pieno formato ha un minor costo di produzione, permette alla fotocamera una maggior compattezza e un minor peso a causa della dimensione minore del pentaprisma e fornisce la possibilità di ridurre le dimensioni degli obiettivi (che quindi sono meno costosi da produrre e più comodi da trasportare).

Con il termine APS-C (C sta per classic) generalmente indichiamo sensori di case produttrici differenti che a volte hanno dimensioni leggermente diverse. Il sensore fotografico APS-C di Nikon (che li rinomina DX), Sony, Pentax e Fujifilm misura 23,6 x 15,7 mm, quello di Canon è più piccolo: 22,2 x 14,8 mm. Capita spesso di trovare sulle reflex numeri come 1,5 o 1,6; si tratta del loro rapporto rispetto alla dimensione del sensore full frame, quindi su Nikon potremo trovare 1,5 e su Canon 1,6.

Esiste anche la sigla APS-H (high definition) utilizzata da Canon su alcune fotocamere della serie 1D, si tratta di un sensore fotografico di dimensioni intermedie fra APS-C e full frame, con una dimensione di 28,7 x 19 mm.

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Full Frame

Eccoci arrivati al sensore fotografico migliore, in grado di raccogliere più luce di tutti i sensori precedenti grazie alle sue dimensioni di 36 x 24 mm, pari a quelle delle pellicole fotografiche più utilizzate. Vi faccio notare una cosa molto buffa: i rullini di queste dimensioni erano definiti “piccolo formato” mentre ora il sensore fotografico full frame è noto come pieno formato! Visto il costo particolarmente elevato che ha produrre un sensore così grande, esso viene utilizzato quasi esclusivamente su fotocamere professionali e top di gamma. Ovviamente la qualità del risultato ottenuto è superiore rispetto a quelli realizzati con i sensori trattati in precedenza.

E le lenti? Gli obiettivi vengono creati appositamente per il sensore fotografico sul quale verranno montati. Ci sono obiettivi per il sistema Micro Quatto Terzi, per il sistema APS-C e per il sistema full frame. Possiamo montarli su qualunque cosa se la baionetta è compatibile?

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Lenti APS-C su full frame

Si, in linea generale si possono montare su macchine full frame, bisogna però verificarne la compatibilità.

Per quanto riguarda Nikon, gli obiettivi Dx possono essere montati su una macchina Fx senza problemi, in genere la fotocamera risponde autonomamente riducendo la copertura delle immagini nel mirino croppandole evitando in questo modo la fastidiosa vignettatura nera agli angoli dell’immagine, in alternativa nel menù è presente una funzione che vi permette di impostare il crop.

Stessa cosa può essere fatta sulle fotocamere Sony e Fujifilm.

Sulle reflex Canon non è possibile perché lo specchio della full frame è di dimensioni maggiori e quindi si può provocare la rottura dello stesso durante il ribaltamento in fase di scatto.

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Lenti full frame su APS-C e MFT

Ma è vero anche il contrario: si possono utilizzare su fotocamere APS-C obiettivi ideati per full frame, quando una lente è montata su un sensore di dimensioni minori rispetto a quello per il quale è stata progettata solo la parte centrale dell’obiettivo viene utilizzata per la ripresa delle immagini e ciò equivale a ritagliare l’immagine catturata escludendo i margini del fotogramma.

Il rapporto fra la dimensione del sensore a pieno formato e quelli più piccoli è chiamato fattore di crop (ci ritorneremo in un articolo dedicato) e ha tipicamente un valore che oscilla fra 1.3 e 2.0, in particolare circa 1.3 per i sensori APS-H, 1,5 per Nikon, 1.6 per Canon e 2 per Micro Quattro Terzi.

Questo è il motivo per il quale utilizzare una lente full frame può essere una mossa intelligente: montando un 600 mm su una Nikon APS-C ad esempio, tenendo conto del fattore di ingrandimento di 1,5 otterremo una lunghezza focale di 900 mm, niente male eh?

Ovviamente la scelta migliore per la qualità delle vostre foto è sempre meglio utilizzare le lenti progettate per il tipo di sensore fotografico della vostra macchina fotografica.

I megapixel

Vi ricordate cosa vi ho detto all’inizio?

Ogni sensore fotografico è composto da un numero di fotodiodi, disposti a scacchiera, ogni fotodiodo percepisce una determinata quantità di luce e produce una carica elettrica, che viene raccolta da circuiti del sensore e portata ai componenti della macchina fotografica che si occupano dell’elaborazione dell’immagine.

Le nostre foto sono quindi formate da un certo numero di punti (detti pixel, crasi di Picture Element), ognuno generato da un fotodiodo.

Se l’immagine che otteniamo è grande 6048 x 4024 pixel sappiamo che il nostro sensore disporrà di 24.337.152 fotodiodi, basta fare la moltiplicazione. Quindi si tratta di una macchina fotografica da circa 24,3 megapixel.

Il numero dei pixel che compongono i lati delle nostre foto mantiene il rapporto fra i lati del sensore, in questo caso infatti si tratta di una full frame (quindi 36 x 24 mm).

Spesso però sentiamo parlare di megapixel effettivi e vediamo che nelle specifiche di una macchina fotografica sono riportati diversi valori di mp, quelli effettivi e quelli totali, com’è possibile questo?

Non tutti i pixel presenti sul sensore vengono impiegati nella creazione dell’immagine, alcuni si occupano di funzioni secondarie, come il determinare la temperatura dei colori, il contrasto o l’eliminazione del rumore. Il numero calcolato in precedenza è quello dei pixel effettivi, sommando il numero dei pixel con funzioni secondarie otteniamo il numero di pixel totali.

Quanta matematica eh? Ecco, questo è il motivo per il quale ce la insegnano a scuola!

Quindi avere più pixel è “più meglio”?

La considerazione che viene spontanea a tutti è: quindi per avere un’immagine ad alta risoluzione bisogna riempire il sensore di pixel! Certo, e questo è il motivo per il quale i produttori cercano di incrementare sempre più i megapixel delle loro macchine fotografiche.

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Quindi più mp= immagine migliore? Non sempre.

In linea generale un sensore fotografico più grande produce un’immagine di miglior qualità, possiamo permetterci fotodiodi giù grandi, che possono quindi immagazzinare un quantitativo maggiore di luce rispetto ad uno più piccolo nello stesso tempo, e quindi le nostre immagini avranno meno presenza di rumore ed una gamma dinamica più ampia, fornendo così maggiori dettagli anche in zone con situazioni di luce difficile, quindi più dettagli nelle zone di alte o basse luci.

Quindi perché non fare sensori di un metro per un metro?

A parte il prezzo, del quale abbiamo già parlato in precedenza, avremo bisogno di fotocamere più grandi, obiettivi più grandi e un consumo energetico maggiore. In aggiunta, in questo modo nascono problemi di velocità nel trasferimento dei dati al processore, perché il nostro scatto conterrà una quantità di dati maggiori. Se non cambia la velocità aumenta necessariamente il tempo necessario per il trasferimento dei dati e di conseguenza il tempo che dovremo aspettare per scattare un’altra fotografia.

Qual è l’alternativa?

Fotodiodi di dimensioni minori per averne un numero maggiore su sensori di pari dimensioni.

Il problema è che minori sono le dimensioni dei fotodiodi, minori sono le loro capacità di catturare la luce, e il quantitativo di disturbo che apportano, provocando quello che si chiama “rumore” cioè la carica elettrica che si mostra come puntini colorati di dimensioni variabili.

Quando il segnale fornito dai fotodiodi è troppo basso è necessario amplificarlo per ottenere un’immagine chiara, possiamo decidere di moltiplicarlo per 100, 200, 400 o numeri più alti: stiamo parlando di ISO.

Ovviamente, come tutti voi saprete, aumentando il numero di ISO si aumenta il rumore.

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Questo è un bel problema: aumentando il numero dei pixel abbiamo immagini più definite, ma allo stesso tempo la resa del sensore alle sensibilità medio-alte diventa più scarsa. La soluzione sta nel mezzo, come in ogni cosa, cercando il giusto compromesso fra un sensore di dimensioni sufficienti per avere un buon numero di fotodiodi della grandezza necessaria a tener basso il rumore introdotto nella fotografia.

Ma quanto dovrebbe misurare un fotodiodo ottimale?

La luce che noi percepiamo ha una lunghezza d’onda compresa fra i 400 e i 750 nanometri, cioè fra 0,4 e 0,75 micrometri, questo è il valore minimo che può avere un fotodiodo, se fosse più piccolo non sarebbe in grado di catturare il fascio luminoso. Per questo motivo i fotodiodi delle fotocamere compatte misurano 2 o 3 micrometri, mentre quelli presenti sui sensori APS-C hanno dimensioni di 5 o 6 micrometri.

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Sensore fotografico: CCD o CMOS

In linea generale possiamo dire che esistono due tipi principali di sensore il: CMOS (Complementary Metal Oxide Semiconductor) e il CCD (Charge-Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica).

Si tratta sempre di due sensori dotati di fotodiodi, sono diversi per fabbricazione e disposizione dei circuiti, vediamo ora come sono fatti e che diverse caratteristiche implichi la realizzazione differente di questi due sensori.

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Partiamo dal meno recente. Il sensore digitale CCD è stato sviluppato nel 1969 nei laboratori Bell da Boyle e Smith che stavano progettando un nuovo tipo di memoria a semiconduttore per i computer. Il primo prototipo funzionante risale all’anno successivo, fu impiegato nelle prime videocamere a stato solido e valse ai due scienziati il premio Nobel per la fisica nel 2009.

Una delle differenze fra i due sensori è che i CMOS convertono le cariche elettriche di ogni elemento in maniera indipendente, al contrario i CCD utilizzano un solo amplificatore di uscita: la carica elettrica raccolta dai fotodiodi viene trasferita fino ai bordi del sensore, qui viene amplificata e convertita nel segnale digitale che serve al processore.

Quello che avviene in un sensore CMOS è più elaborato ma consuma meno: ogni fotodiodo ha un amplificatore e un convertitore, in questo modo si trasmette una differenza di potenziale e non una carica elettrica come avviene nel sensore CCD.

Per la difficoltà di realizzazione i sensori CMOS furono presi in considerazione solo alla fine degli anni ’90 ma, con l’avvento delle nuove tecnologie, la produzione di questi ultimi è stata semplificata rendendo i CMOS i sensori più usati.

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Per quale motivo scegliere un sensore CCD?

Sono dotati di una superiore gamma dinamica, maggiore sensibilità, rispetto al CMOS hanno un livello di rumore inferiore per la minore integrazione all’interno dell’area fotosensibile, presenta una superiore efficienza con un fattore di riempimento maggiore.

E quali vantaggi comporta invece un sensore CMOS?

Oltre al già citato minor consumo di elettricità e il conseguente minor surriscaldamento, l’integrazione presente sul chip permette una semplificazione delle componenti elettroniche della macchina fotografica, in aggiunta produrre un sensore di questo tipo ha un costo inferiore.

In realtà non possiamo dire che un sensore sia migliore dell’altro, la qualità dello scatto ottenuto dipende da come la tecnologia viene implementata.

A partire da questi 2 tipi di sensori digitali ne sono stati sviluppati altri:

Foveon X3

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Abbiamo già trattato questo argomento sopra. È un sensore CMOS prodotto da Sigma che lo utilizza nelle sue DSRL.

Costituito da 3 livelli sovrapposti permette al singolo pixel di catturare tutti i colori.

Le fotografie scattate con questo sensore hanno tonalità molto realistiche, hanno un dettaglio eccezionale ma soffrono della ridotta resistenza agli ISO del sensore.

Super CCD
Sensore derivato dal CCD e sviluppato nel 1999 da Fujifilm.

Nel 2003 Fujifilm ha presentato la quarta generazione di questo tipo di sensore con 2 varianti: Super CCD HR (High Resolution, alta definizione) e Super CCD SR (Super dynamic Range).

Con questa nuova generazione i pixel diventano di forma ottagonale, disposti a nido d’ape su file inclinate con un angolo di 45°, ottenendo così una miglior risoluzione verticale e orizzontale (ancora una volta: come l’occhio umano) a discapito della diagonale.

Con questa struttura i fotorecettori sono più larghi e meno distanti, di conseguenza viene aumentata la sensibilità del sistema. Ovviamente l’informazione ottenuta deve essere riordinata in una griglia dotata di pixel quadrati prima di essere utilizzabile.

Nei Super CCD SR all’interno di ogni pixel troviamo due fotodiodi di dimensioni differenti, uno più piccolo per le condizioni di forte luminosità e uno di dimensioni maggiori per le situazioni più buie.

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Super HAD CCD

Questo sensore è stato sviluppato da Sony, mediante un aumento della sensibilità del sensore e una riduzione delle interferenze, la quantità di luce che raggiunge ogni singolo fotodiodo è aumentata, infatti HAD significa Hole Accumulation Diode. Questo tipo di sensore vanta una sensibilità due volte superiore rispetto a quelli CCD.

CMOS Retroilluminati (o Back Illuminated o BSI)

Il sensore EXMOR- R del 2009 di Sony appartiene a questa categoria.

I sensori CMOS Back Illuminated nascono nel 2007 grazie a OmniVision Technologies, ma inizialmente il loro utilizzo è stato limitato a causa della complessità costruttiva e degli elevati costi di produzione.

In questi sensori il fotodiodo è direttamente a contatto con la lente frontale che si occupa di indirizzare il fascio luminoso, e non in prossimità come accade negli altri tipi di sensori CMOS.

Tramite questa costruzione si evita la dispersione del segnale luminoso causata dalla riflessione del circuito stesso. Inizialmente questo sensore presentava un elevato rumore, producendo fotografie estremamente poco definite. Con il progredire della ricerca questo problema è stato risolto.

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Live MOS

Questi sensori sfruttano la tecnologia CMOS per produrre prestazioni qualitativamente simili a quelle dei CCD senza un eccessivo consumo.  

Olympus, Panasonic e Leica dal 2006 utilizzano sensori di questo tipo sulle loro DSRL Micro Quattro Terzi.

Sensore fotografico: come si pulisce

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A volte capita di fare una foto e notare qualche fastidioso pallino nero nell’immagine, questo può essere dovuto a 2 cose: una lente sporca o un sensore sporco.

Per capire se è colpa del sensore vi consiglio di scattare una foto ad un muro o un foglio di carta completamente bianco, con un diaframma molto chiuso. Se nella foto vedete apparire delle macchie di colore scuro vuol dire che all’interno della vostra macchina fotografica, con il normale utilizzo o durante il cambio di una lente, è entrata un po’ di polvere depositandosi sul sensore.

Se con la prova del muro bianco vedete granelli, sicuramente la prima manovra da fare è avviare la pulizia del sensore automatica. Quasi tutte le macchine fotografiche dispongono di una funzione che abilita la funzione di pulizia automatica del sensore, volendo può essere anche programmata per ogni volta che la macchina viene accesa o spenta.

Una cosa importante: la macchina va tenuta dritta mentre si esegue questa operazione, in questo modo il sensore rimane perpendicolare al pavimento, inclinarla verso il basso o verso l’alto porta i granelli di polvere a depositarsi sui componenti interni.

Ma se questo passaggio non fosse sufficiente?

ATTENZIONE. Il sensore è estremamente delicato, durante un intervento di pulizia, anche se fatto da personale qualificato, il rischio di rigarlo è piuttosto alto. Per questo motivo è importantissimo prendersi sempre cura del proprio sensore cambiando gli obiettivi in una zona il più possibile libera da polveri o sabbia e avendo cura di mantenere sempre il sensore esposto per il minor tempo possibile e soprattutto sempre rivolto verso il basso.

Meglio prevenire che curare. Ma se siamo costretti a curare?

Il consiglio più spassionato che mi sento di darvi è: se le macchie sono poche sarà sufficiente una passatina in post-produzione per eliminarle, è meglio che rischiare un graffio sul sensore.

Ma se le macchie sono tante, avete paura che lo sporco si solidifichi o semplicemente vi secca questo lavoro extra ogni volta che sviluppate le vostre immagini, le soluzioni sono due: il fai da te o l’assistenza qualificata.

Se non vi sentite di rischiare la soluzione migliore è portare la vostra macchina fotografica in assistenza, ve la restituiranno dopo qualche giorno o addirittura in giornata pulita per un prezzo che si aggira intorno ai 50 euro.

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Se invece siete delle persone estremamente precise e adorate lavorare con le mani prendendovi cura dei vostri oggetti, ecco come fare.

Ma prima un attimo di attenzione: ecco cosa non fare MAI (o gli spiriti dei fotografi passati, presenti e futuri verranno a tormentarvi tutte le notti):

  • non soffiare con la bocca, rischiate di far arrivare goccioline di saliva sul sensore;
  • non usate mai bombolette ad aria compressa al posto della pompetta, il getto d’aria è troppo forte e potrebbe danneggiare il sensore;
  • non usare un generico pennello tipo quelli da trucco o quelli da pittura, oltre alle possibili tracce di sporco, sono di un materiale troppo rigido e rischiate di rigare il sensore;
  • non usate liquidi strani sul sensore (sapone, detergenti o alcool), usate solo quelli appositi.

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E ora vediamo cosa acquistare e come agire.

Vi serviranno una pompetta ad aria o una spatolina apposita per la pulizia del sensore, acquistabili su internet o in un negozio di fotografia.

Mettete la vostra fotocamera su un piano, rimuovete l’obiettivo e chiudetelo subito (o sarete punto e a capo la prossima volta che lo monterete…) con il suo tappo.

Accendete la fotocamera e fate alzare lo specchio (nel manuale della fotocamera è sempre spiegato come fare) a questo punto usate la pompetta o la spatolina, mi raccomando, siate delicati.

Fatto? Ricucite il vostro paziente richiudete tutto, ripetete il test del muro bianco e dovreste aver risolto, almeno per quanto riguarda le macchie meno ostinate.

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